Dal seminario tenuto agli operatori della Cooperativa Papa Giovanni XXIII – 16.05.2013
“Sandro e il suo senso riempiono il mio spazio interiore. Mi ritrovo a rincorrere gli eventi, fermarmici dentro, come se fossero il fine ultimo, perdendo di vista il senso. Mantengo in questa fatica la leggerezza, lo sguardo di Sandro mi riscalda, mi da stabilità. In questo apparente non senso che ha preso forma nel suo corpo informe, anche le cose più piccole interrogano, parlano esprimono. Fino a che punto mi lascio interrogare. Imparare a riconoscere la gratuità, la mia capacità di amare in modo incondizionato, il saper rinunciare a me stessa, a non considerare il mio tempo…
Stasera sono commossa di fronte al senso di Sandro che a sprazzi si definisce, affiora. Cosa riesce a portare in luce un corpo sofferente, cosa riesce a far nascere, a creare, a intessere, dalle profondità.? Una serie di relazioni, una possibilità di conoscere risorse e limiti, una solidarietà inaspettata, uno scambio, un gesto, un agire silenzioso, un affanno giustificato, un sottile accompagnamento nello scorrere della giornata, un intreccio di pensieri, interrogativi, scrupoli disagi, bisogni, profondità di sguardi… tutto intorno ad un corpo, un’anima. Sandro ha il senso di trasformare chi si lascia penetrare dal suo sguardo. Così è la sofferenza: ti penetra se la lasci entrare e niente è più come prima.
Chi fatica a vivere mi insegna a vivere
Continuamente imparo, purifico il mio stare, si definiscono i tratti della sofferenza umana, si aggiustano, si dilatano, si espandono. Come solo dal soffrire possa prodursi il senso. Non una ricerca della sofferenza, ma un entrare dentro, una com-partecipazione. Un sentirla mia. Quando davvero mi entra dentro, mi fa paura, mi arriva improvviso un desiderio di allontanamento, diventa mia . La osservo. La sofferenza del corpo, dell’anima, il disagio psichico, sociale, l’incontro con vite spezzate che non reggono il peso. Quell’ entrarmi nelle viscere mi spacca e da quella frattura nasce un moto. Dal profondo nasce un moto di trasformazione.
Chi fatica a vivere mi insegna a vivere, nella semplicità, nell’ umiltà. Chi è lì e sta nel non senso della propria esistenza è fermo, stabile, si lascia guardare, perché la presunzione di chi si muove possa fermarsi, ridursi, possa trasformarsi. Chi fatica a vivere mi insegna a vivere, a far morire il mio ego, a liberarmi dei fardelli, di miserie. Mi insegna che si può stare senza niente e quel niente produce tutto. Quella costrizione del e nel dolore che fa perdere la dignità di esseri umani fa entrare in contatto con il divino che è in ciascuno di noi. Più la sofferenza è estrema e disumana, più affiora il divino” Antonella 22.07.2008
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Sono sempre stata affascinata e appassionata dal mistero della corporeità, passione che ha influenzato fortemente le mie scelte di vita e professionali. Una ricerca inesauribile che mi ha orienta verso la professione di fisioterapista e che è continuata verso tutte quelle discipline che sapevano guardare dentro il corpo e oltre il corpo. Questo mistero inquietante e al tempo stesso trasparente, misterioso che sa contenere nascondere tutte le esperienze che la vita ci offre.
Lo yoga, via di unificazione, disciplina antica, millenaria che Jung definisce “la più antica indagine che l’uomo abbia mai svolto sul corpo e sulla mente” si è affacciato a dare contenuto a quella relazione di cura che il mio corpo intero desiderava dare nell’incontro con altri corpi interi. Quel senso di unicità che mi consente di osservare me, corpo, all’interno della relazione con il tu/corpo paziente. Cura di sé e cura dell’altro sono movimenti educativi complementari e inscindibili, si ritrovano sul terreno comune della cura dell’esistenza.
IL CORPO DI CHI SI PRENDE CURA
La dimensione corporea nel lavoro dell’operatore è un territorio poco esplorato nelle organizzazioni sociali e sanitarie. La cultura più diffusa tra gli stessi operatori è considerare marginale o poco professionale le implicazioni che derivano dallo svolgere un lavoro corpo a corpo operatore/utente.
Aprire spazi di consapevolezza è indispensabile nella vita di ognuno, in ogni lavoro, ma chi sceglie un lavoro di cura e prevede di aiutare gli altri a curarsi, a educarsi, a ri-educarsi, necessita più di altri di lavorare su di sé, sulla consapevolezza di sé, sul proprio corpo, sul proprio vissuto, sulle proprie ferite. Perché il lavoro di cura si realizza proprio attraverso azioni incarnate dell’operatore.
PERCHÉ YOGA?
- Perchè Yoga è unificazione e la prima unione che mi chiede di realizzare è quella con me stessa. Questo significa osservare, conoscere, riconoscere cosa accade in me, entrare in una relazione intima con me stessa. La via della verità, dell’autenticità, satya, che Patanjali definisce tra gli yama come fondamento essenziale, rende autentica la mia presenza nella relazione di cura.
- Per dare un nome al mio vissuto emotivo riconoscendolo non come una dimensione accessoria del mio essere, ma come sostanziale via di consapevolezza, di coscienza di me, degli altri, della situazione. Quindi considerare la mia vita emotiva, cosa mi muove dentro, CON-SIDERARE, da sidus: STELLA, porla in alto e osservarla. EDUCARSI A VIGILARE su di essa che non significa controllarla ma perseverare una osservazione non giudicante.
Prova a osservare il tuo vissuto emotivo e sperimenta l’arrendersi. Lascia, per esempio, che una qualunque sensazione che si manifesta nel tuo corpo sia così come è. Prova a dirle di sì. E osserva ciò che accade. Sperimenta poi anche con una emozione, osservala nel corpo e lasciala libera di muoversi come vuole. Da uno stato di vigilanza appoggiato sulla sensazione fisica. Nota come diventi presente non appena dici sì.
- Per educarmi a dimorare, a stare in presenza. Per saper stare nelle situazioni anche quando sono di fronte ad eventi spiacevoli e non governabili, dove viene messa in crisi l’adeguatezza della mia presenza o l’impotenza. ESSERE PRESENTI è ACCETTARE di poter dire “ non so” nei sentieri della cura educativa, è imparare a camminare nell’incertezza, riconoscersi impreparati a risolvere alcuni problemi, e limitarsi a stare in presenza Il non avere parole, tecniche, efficienza. Lì la relazione si gioca sull’intensità del gesto, nel significato della parola, il valore di un sorriso, un silenzio. Questo vuol dire stare in presenza. Possiamo imparare a essere presenti, imparare a contenere questo momento, questa persona, noi stessi, in un ascolto a cuore aperto.
- Per riconoscere e accogliere la mia vulnerabilità e fragilità, riconoscere i limiti come spazio di potenzialità. I vissuti della cura non ci lasciano mai indifferenti, toccano sempre parti di noi delicate, questa intensità a volte ci fa paura perché ci scopre, riapre ferite ci costringe a guardaci dentro. E la paura blocca. Vulnerabilità e fragilità sono dimensioni che si sperimentano frequentemente nel lavoro di cura, ci si sente frammentati su più livelli, si avverte continuamente l’implicazione tra il piano personale e quello professionale, indifesi rispetto al dolore, continuamente sopraffatti dalle domande di SENSO. Di fronte all’inspiegabile ci si chiede “perché, perché tutto questo? E lì può affacciarsi il rifiuto di vedere, di fronte a situazioni di dolore, di ingiustizia, sarebbe meglio non aver visto, non aver sentito, non essere stati coinvolti, eppure siamo lì e lì il rischio di ritirarsi nell’isolamento è grande. Lo yoga ci dà la possibilità di stare nel processo senza cercare il risultato dell’azione, di osservare e prendere coscienza dei propri limiti e il limite nella pratica diventa il riferimento dinamico.
- Per educarmi a riconoscere l’ansia di fallire che mi impedisce di vedere le cose come sono: ‘dovevo fare di più, potevo fare meglio, è colpa mia’, le recriminazioni i sensi di colpa, se non contestualizzate e rielaborate possono alimentare lo scoraggiamento per il proprio compito educativo e non produrre cambiamento.
- Per educarmi a fare affidamento su un centro che è in me, attingere da una forza interna, fidarmi. Quando i grazie non arrivano, le conferme non ci sono, quando vorrei cogliere tracce del mio operare dopo tutto il mio investimento.
- Per educarmi ad accogliere la dualità che è in me (emozioni contrastanti). Negare alcune dimensioni a scapito di altre non facilita la crescita armonica, crea aree di nascondimento, di ombra, mi irrigidisce, mi rende dura ai cambiamenti come una pietra che se cade si spezza e si e così ancora più fragili. Riconoscere la dualità tra dono e difesa di sé nella relazione, tra la negazione e l’assunzione del limite. A volte rischiamo di perderci nei sentieri a senso unico del dare, di prestare aiuto, se non rafforziamo il movimento bidirezionale di rientro in noi stessi, se non ci concediamo soste per osservare i passi compiuti e mantenere lo sguardo verso la direzione dove andare. Si oscilla a volte nel lavoro di cura tra la sicurezza dell’abitudine al desiderio di novità, dal consolidamento di pratiche, al dubbio e alla messa in discussione, si instaura così una insicurezza di fondo che si muove tra l’esserci e il ritirarsi. I tentativi di fuga esprimono la preoccupazione di nascondere la propria fragilità e la difficoltà a mostrarci con quello che si è, con i dubbi le insicurezze, gli slanci e le chiusure. Riconoscere, accogliere armonizzare la dualità per trovare un centro.
- Dualità presente anche nel riconoscimento dei confini che mi distinguono dagli altri. Alcune emozioni infatti nascono direttamente da noi, dal contatto diretto con la realtà, in altri casi siamo cassa di risonanza che accoglie e rielabora emozioni altrui. Non è sempre facile nei contesti relazionali distinguere perché può esserci coinvolgimento emotivo alto. Ma è importante riconoscere sé e l’altro, è necessario per entrare in empatia e riconoscere i vissuti emotivi delle persone che incontriamo. Una empatia che è com-passione nel senso buddhista del termine, SENTIRE-CON, togliere la sofferenza, patire insieme per dare pace felicitò, non pietà, commiserazione non annullarsi, negarsi. Un abbracciare la vita nelle sue manifestazioni, un sentire e vivere autenticamente una inter-connessione nella sofferenza e condizione dell’altro. Ci sono momenti di vero pericolo nel lavoro di cura: è quando perdiamo la compassione per noi stessi, quei momenti in cui non siamo toccati dal nostro dolore, dalla nostra sofferenza, o i momenti veramente dolorosi in cui perdiamo la compassione per quelli che ci hanno ferito e possono essere anche i nostri assistiti. Allora quando si perde la compassione si affaccia un forte senso di separazione, una grande distanza tra sé e l’altro. Nasce l’isolamento. Ovviamente in quel buco vuoto nascono emozioni di rabbia, di risentimento, di paura, di biasimo che aumentano ancora di più l’isolamento. Diventiamo prigionieri di tutte le sensazioni, le ansie le paure, al cuore viene a mancare la capacità di aprirsi, di lasciarsi toccare dalla sofferenza dal dolore, viene a mancare il senso di interconnessione profondo con la vita. Perdiamo il contatto con noi stessi.
YOGA è AUTOEDUCAZIONE
Lo yoga è una via di conoscenza di sé, è soprattutto una autoeducazione, una ricerca che permette di avviare un processo di unificazione con se stessi, con il mondo (relazione con l’altro), con il divino. E’ impensabile pensare di educare, ri-educare l’altro, se questo processo non si avvia, cresce, evolve per me operatore.
Lo yoga è una via concreta. In tutte le manifestazioni dello yoga c’è la concretezza, c’è l’entrare in rapporto con la verità, la nostra verità. L’hatha yoga in particolare è una via di rapporto con il corpo, con le dinamiche fisiche, perché è con il corpo che entriamo in relazione.
La ricerca esperienziale che andiamo a fare con lo yoga ci permette di contattare il corpo e le aree particolari del corpo per permetterci di costruire un certo tipo di dinamismo, operando sul soma noi diamo alla psiche una possibilità in più di sperimentare un’attitudine diversa e quindi una maggiore libertà psicologica, un maggiore benessere psicologico, dovuto al fatto che non siamo legati ad un assetto rigido. Conoscendo le nostre abilità ho la possibilità di rovesciare questo assetto. I processi di condizionamento del corpo sono spesso collegati con processi psichici che vanno a concretizzarsi in una rigidità fisica. Lo yoga produce un effetto somatopsichico perché si opera un’azione sul corpo dove ci sono dei processi di irrigidimento dovuti a dinamiche inconsce. Agendo sul piano fisico l’elemento originario che ha determinato quella rigidità, tensione viene a decadere, a sciogliersi. Praticando può accadere di contattare psicologicamente l’evento, l’emozione, la paura, la rabbia. Quindi l’azione somatopsichica è l’azione di smontare un processo che ha avuto spazio nel corpo determinando un certo tipo di condizionamento. Per questo è necessario attraverso la pratica costruire dinamiche fisiologiche tali da andare a sviscerare tutti i luoghi dove si sono annidati questi processi per liberarli, perché la ripercussione è una realtà molto nascosta della nostra mente, della nostra condizione psicologica. Andiamo ad agire sul corpo per liberare la mente da condizionamenti, a volte paure, a volte traumi, fenomeni di vario genere, anche incidenti che come ripercussioni hanno blocchi fisici anche in altre zone rispetto all’incidente.
Una persona che non lavora sul corpo, che non sperimenta lo yoga rimane inglobata in un assetto psicosomatico, ha scarse possibilità di uscire fuori da questo assetto cioè di conoscere una dimensione somatica tale da permettergli di contattare una dimensione psicologica diversa. Quindi con la pratica ci educhiamo ad una possibilità diversa di espressione, perché il corpo è uno strumento espressivo, come le parole, il gesto, anche l’assetto, la postura, il comportamento fisico sono espressioni.