Introduzione
Il mio incontro con lo yoga risale all’età di 18 anni quando non ricordo neppure come, erano gli anni ’80, mi sono ritrovata in un corso di yoga, condotto da un insegnante indiano e dalla sua compagna italiana. Ricordo molto poco, ricordo le sensazioni, il mio primo incontro con posizioni corporee affascinanti, con il silenzio che cercavo da sempre. Ne rimasi colpita, senza capirne molto. L’indiano non parlava, mostrava le varie asana che io imitavo senza chiedermi e che con un potere magico mi conducevano in una dimensione Altra. Mi affascinava anche ritrovami in un corpo trasformato dalle varie posizioni e la sensazione di benessere psico-fisico che da questo ne derivava. Poi questa esperienza si interruppe e non cercai altro. Durante la mia gravidanza 6 anni dopo, casualmente acquistai un libro di Gabriella Cella che mi accompagnò per tutti i nove mesi in una pratica quotidiana individuale, con l’intento soprattutto di preparare il mio fisico ad una nascita armonica del figlio che portavo in grembo, ritrovai quel silenzio e quella dimensione sacra e religiosa di una pratica che giorno dopo giorno mi coinvolgevano sempre di più.
La ricerca del silenzio e dell’Infinito proseguiva alternandosi nelle avversità e nella confusione del quotidiano.
Molto più tardi, forse in età più matura, ancora casualmente (diciamo), ebbi il mio primo incontro con la meditazione. Partecipai ad un corso di meditazione, di preghiera silenziosa, in cui un frate cappuccino, padre Andrea Snoller mi iniziò alla pratica meditativa, alla ‘preghiera del cuore’, conducendomi in quello spazio che cercavoall’interno di me, all’incontro con il silenzio e di Dio nel silenzio. Qui ha inizio la seconda parte della mia vita.
In modo indefinito percepivo di aver intrapreso una via il cui effetto immediato produceva in me una profonda calma e pace, che mi permetteva di raggiungere un silenzio interiore che da tempo cercavo e che questo silenzio mi consentiva di percepire una relazione con Dio e con me stessa mai avuta fino a quel momento. La ricerca continuava in ambito cristiano e lentamente il momento meditativo entrava a far parte del mio quotidiano aprendomi alla consapevolezza e al risveglio, potenziando la mia vita attiva e riducendone le preoccupazioni .
Mi addentrai in questo mondo molto variegato di pratiche meditative e nella mia mente si instaurava la convinzione che la meditazione fosse qualcosa che si fa e non qualcosa che si è o che accade. Un altro inganno era quello di pensare di passare per gradi progressivi da una tecnica più semplice ed elementare a pratiche via via più complesse.
Contemporaneamente riprendevo a frequentare settimanalmente un corso di Yoga, accorgendomi che durante la pratica di asana entravo subito in uno spazio di preghiera, in una relazione intima con Dio, questo mi induceva a continuare in questa strada la mia ricerca.
Ho intrapreso questa formazione yoga dopo aver incontrato varie esperienze meditative a partire dalla mie radici cristiane.
L’incontro con il maestro, Antonio Nuzzo, casuale, (ma ora non credo alla casualità), e la scoperta di questo mondo ha acceso dentro di me la scintilla dell’interesse.
Nuzzo al primo incontro ci disse che lo yoga e questo corso avrebbero cambiato la nostra vita, rimasi stupita e quasi intimorita. Ora con grande gioia capisco la verità delle sue parole.
Quando ho iniziato questo corso la prima affermazione che mi ha suscitato stupore e movimento interiore è stata yoga cittavritti nirodha, il 2° sutra del Samadhi Pada di Patanajali, il vero unico intento da coltivare nello yoga. Questa frase, molto classica, è in realtà il cuore dello Yoga. Le vritti, come arrivare a eliminare, a liberare la coscienza dalle vritti, come fare in modo che la coscienza sia libera. E’ questo tutto il progetto, in questa semplice frase c’è tutto il percorso dello yoga, qualcosa che ci coinvolge tutta la vita.
Mi sconvolse la determinazione nelle parole di Nuzzo: “Il desiderio del praticante deve essere yogacittavrittinirodha, se il desiderio non è questo e ci sono desideri diversi, allora bisogna aspettare che questi muoiano, ciò vuol dire che il praticante non è maturo per fare yoga. Chi pratica yoga deve essere folgorato dal desiderio sconvolgente di coltivare cittavrittinirodha, tutti gli altri desideri sono al di sotto di questo. Nel momento in cui si studia yoga ad un certo punto bisogna fare una scelta di verità, perchè lo yoga ci chiede onestà intellettuale verso noi stessi”.
Queste parole per me, che ero approdata al corso più attratta da un istinto nascosto, da un desiderio egoico di conoscenza, risuonarono esagerate, pensai di trovarmi nel posto sbagliato, fondamentalmente non capivo, non comprendevo. Mi sentivo in un percorso di ricerca avviato grazie all’incontro con le pratiche meditative, sentivo risvegliato in me un desiderio di ricerca spirituale, intuivo lo yoga come uno strumento, ma sentivo che mi veniva richiesta una adesione che al momento non riuscivo ad intendere. Eppure mi affascinava questa possibilità di purificare la mente e il corpo, nutrivo dentro di me il desiderio di conoscere, incontrare l’Infinito, di andare verso quel senso di pace interiore, di vuoto, di silenzio, quel Centro che percepivo al quale davo il Nome di Dio, Dio dentro di me, esperienza del Divino, di qualcosa Oltre le cose materiali che sperimentavo. Un desiderio di ricerca e di scoperta verso la Realtà Eterna, dentro di noi. quel qualcosa di noi che non è di questo mondo e che non è soggetto a mutamento.
Nella pratica, nonostante gli inviti e le sollecitazioni del maestro, continuavo a sperimentare durezza nei confronti di me stessa, desiderio di raggiungere forme affascinanti, ansia di prestazione, e giudizio spietato per non riuscire, contrasto enorme tra i darsana che mi venivano trasmessi e la rigidità mentale e fisica che sperimentavo.
Mi trovavo a vivere un alternanza di periodi di chiarezza e periodi di oscurità. Dopo la chiarezza che sentivo cospargere il mio intelletto e che sperimentavo nella pratica, ricadevo in momenti in cui la mente diventava opaca e il mio corpo rigido e analfabeta, con uno stato emotivo instabile e confuso. Ma l’alternanza mi dava la dimensione della dinamicità, qualcosa si muoveva lentamente.
Continuando lo studio dei Sutra di Patanjali, il secondo libro, il Sadhana pada, si è rivelato determinante per entrare nel cuore dello yoga e per riempire di un contenuto nuovo, originale e unico il lavoro corporeo e soprattutto la meditazione.
Il krya yoga, la strategia, l’incontro con i klesa, la sofferenza dell’uomo e la strategia originale ed unica che Patanjali esprime per ridurre la sofferenza. Una modalità educativa e pedagogica che viene rivelata all’uomo per avviare un percorso di trasformazione interiore. Questa è stata la vera grande rivelazione.
Scelta dell’argomento
La scelta dell’argomento da approfondire per questo lavoro non è stata facile perché sento di essere ancora all’ABC, verbalizzare o scrivere concetti così difficili , il dover integrare insegnamenti filosofici e il mio vissuto interiore è davvero una bella scommessa.
Per diverso tempo ho pensato di volermi addentrare nell’argomento della meditazione perché questo era il mio punto di partenza. Ma più andavo avanti nel corso di questi anni e più mi si chiariva il nodo focale: la meditazione necessita un atto di abbandono del corpo, della mente, delle emozioni, del conscio e dell’inconscio, una resa totale, un non desiderare niente e un lasciar che l’energia divina e creatrice operi in me senza opporre resistenza. L’atto per me più difficile. E proprio l’intravedere una possibilità di abbandono, che ho iniziato a sperimentare nella pratica verso metà del terzo anno, ha definito il desiderio di approfondire, in questa opportunità di riflessione che la tesi di fine corso rappresenta, il contenuto di Isvara pranidhana proposto da Patanjali.
Per meglio esplicitare questi concetti prenderò in esame in modo particolare il concetto di disciplina, distacco e fede presenti nel primo capitolo per arrivare alla strategia e al contenuto suggerito da Patanjali nel Sadhana Pada.
Ho voluto inserire alla fine di questo lavoro, il contributo sull’argomento di alcuni miei compagni di corso ai quali ho chiesto di esprimere il proprio vissuto su Isvara pranidhana.
Yoga Sutra
Gli Yoga Sutra di Patanjali sono un testo sintetico e compatto costituito da 195 aforismi che sono stati scritti dopo un lungo periodo di trasmissione orale. Per secoli sono stati tramandati da maestro ad allievo in forma di canti: la loro particolare cadenza e ritmicità è legata proprio a questo, al fatto che dovevano essere appresi a memoria e salmodiati. Nella loro forma scritta i Sutra non hanno una datazione precisa ma si fanno risalire ad un periodo compreso tra il II sec a.C e il IV sec. d.C.
Ma la cosa originale è che la straordinarietà degli Yoga Sutra si scopre praticando, ciò che li rende preziosi è il trattarsi di un testo legato al vissuto assai più di un testo filosofico o una riflessione intellettuale. E’ una codificazione estremamente strutturata e chiara e la particolarità è appunto che appare chiara e precisa solo ai praticanti di yoga.
Se ci si limitasse ad un’analisi del testo li troveremmo ermetici e inaccessibili. Infatti gli studiosi che non praticano addirittura vedono questa codificazione di Patanjali, dispersiva e confusa.
Quando però ci si confronta con i Sutra dal punto di vista del “vissuto”, dell’esperienza sul tappetino, il testo comincia a rivelare il suo significato profondo. E’ come se Patanjali avesse scritto una serie di appunti, qualcosa di estremamente sintetico e ristretto, che solo l’iniziato può comprendere, chi non è iniziato si sente inadeguato e giudica l’opera incompleta e superficiale.
Questo testo da solo non dà sostegno, deve essere indubbiamente accompagnato dalla pratica, e più uno pratica più i concetti espressi si chiariscono e diventano interessanti e completi.
Ciò che il Sutra dice, recepito da ognuno di noi in modo diverso, si rivela sorprendentemente vero e ognuno finisce per ritrovarlo in sé. Mano a mano che si va avanti nella ricerca si definiscono meglio i concetti e ci si accorge che Patanjali offre al praticante una traccia, una direzione. Non era sicuramente nella sua intenzione fornire un trattato di filosofia ma fornire un promemoria per tutti i tipi di yoga, al di là della tecnica che rappresenta solo lo strumento e non l’elemento essenziale per raggiungere lo scopo, la conoscenza di sé e la liberazione della coscienza
I Sutra raccontano di una trasformazione interiore, del fatto che gli esseri umani si confrontano con domande che rimangono immutate nei secoli. Domande che riguardano il fatto che siamo esseri umani con facoltà di coscienza. Ci rendiamo conto, abbiamo la facoltà di essere consapevoli di ciò che sperimentiamo, il fatto di potersi accorgere degli eventi, di poter ascoltare, essere consapevoli, rivela che in alcuni momenti della nostra vita sembriamo svegli, partecipi, ci siamo, mentre in altri siamo assenti, agiamo come automi, non siamo in noi.
Il testo degli Yoga Sutra si sviluppa intorno a domande: chi sono io realmente? La mia coscienza è trasformabile, o è immutabile? Se in noi non ci fosse la convinzione di poter trovare delle risposte non intraprenderemmo un percorso interiore. Chi si avvicina allo yoga e si stende sul tappetino e decide di praticare lo fa perché riconosce di essere plasmabile, di potere intraprendere un percorso di trasformazione, di essere e scegliere di stare in un percorso evolutivo che riguarda la propria storia personale, la storia dell’umanità intera e cosmica.
I Sutra (filo) parlano di tutto questo nei quattro libri chiamati Pada, che in sanscrito significa, appunto libro, capitolo.
Il primo parla di Samadhi, termine sanscrito che indica la “fusione”, la “perdita” di una individualità, che si fonde nell’insieme. Samadhi, ha anche il significato di sepoltura, è la manifestazione del fatto che la persona ha perso la propria forma personale. Samadhi è ritornare Uno, è liberarsi dalla sensazione di separatezza che accompagna ognuno di noi. Questo primo libro parla proprio del processo di trasformazione della coscienza necessario per tornare UNO, per passare da uno sguardo che separa, che percepisce sé e gli altri come entità distinte, a uno sguardo in grado di cogliere l’Indiviso. Vi sono indicati ostacoli e difficoltà che costellano questo percorso e come superarli.
Il secondo libro è intitolato Sadhana Pada, Sadhana in sanscrito significa percorso, via, strumento adeguato a conseguire un obiettivo, quanto è necessario per interrompere l’ingranaggio della sofferenza e agire. Sadhana è una strategia, sono i mezzi a disposizione per elaborare una trasformazione. Sadhana Pada si occupa di questi mezzi, di ciò che abbiamo a disposizione per attuare un cambiamento. La strategia comprende otto aspetti o passaggi , è l’ashtanga yoga.
Nel terzo libro, il Vibhuti Pada, vengono descritti alcuni eventi non ordinari, denominati siddhi che possono presentarsi quando la coscienza raggiunge certi livelli di libertà
Il quarto libro Kaivalya Pada è dedicato alla libertà. La libertà di cui parla il testo ha a che vedere con l’idea che si è Uno, quando si scopre di poter esistere senza essere il contrario di qualche cosa, senza essere contrapposti a qualcosa. Essere dunque come forma di libertà
Disciplina, non attaccamento, fede
Possiamo dire che il primo libro si riferisce allo yoga attraverso la percezione, lo yoga darsanam. Darsanam è la visione della vita e di noi stessi. Lo yoga che si ottiene mediante la percezione ha bisogno secondo Patanjali, di alcune correzioni e purificazioni. La percezione sarà purificata attraverso la disciplina. E cos’è questa disciplina? Citta vritti nirodha (YS I,2) : l’incondizionata sospensione di tutta la struttura psichica che la razza umana ha costruito per secoli. Citta è la struttura psichica (cosiddetta mente) costruita dall’uomo e vritti è il movimento di quella struttura. Se questo movimento viene sospeso, completamente interrotto, (nirodha) allora si ha l’autentica percezione.1
Patanjali passa a descrivere cosa accade quando le vritti vengono eliminate e cosa accade quando c’è invece una identificazione con le vritti. Nei primi quattro sutra praticamente Patanjali esprime già tutto ciò che ci serve sapere dello Yoga e della vita e poi va avanti per altri centonovantadue per chiarire quello che ha detto nei primi quattro.
Passa poi a classificare le vritti in cinque categorie e descrive con arte come debellarle introducendo nel sutra 12 il binomio fondamentale e inscindibile abhyasa e vairagya – disciplina e distacco- .
Abhyasa e vairagya costituiscono i due poli di ogni forma di yoga e, di fatto, di qualsiasi disciplina spirituale. Raramente si è compreso questo punto 2
La bipolarità del sentiero yogico fu evidenziata per la prima volta nella Baghavad-Gita, che impiega esattamente gli stessi termini usati da Patanjali per indicare i due; è quasi certo che egli possedesse una conoscenza approfondita di questa antica scrittura yoga “la mente o eroe dalle possenti braccia (Arjuna) è senza dubbio instabile e difficile da controllare: ma con la pratica e il distacco, o figlio di Kunt, la si può soggiogare” (BG VI,35)
Abhyasa
Il termine significa letteralmente abhi+yas “sopportare, impegnarsi in”. Non compare negli strati più antichi della letteratura indu, dove è sostituito dal termine srama o “esercizio”. Se ne fa menzione per la prima volta nella Baghavad Gita. Nel suo uso più filosofico il termine abhyasa ha il significato di “ripetizione, abitudine” e parte di tale connotazione è passata nel concetto di “pratica” di Patanjali come risulta dai sutra di Patanjali I, 13 “tatra sthitu yatna abhyasah” e I,14 “Sa tu dirgha kala nairantarya satkara asevitah dridah bhumih”, la pratica consiste nello sforzo ripetuto di dare stabilità al processo mentale. Tuttavia questa pratica produce stabili progressi solo quando è coltivata per lungo tempo, ininterrottamente e con fede, costanza e determinazione3 .
Quindi il termine “pratica” designa quella concentrata assiduità interiore tesa alla realizzazione dell’Essere trascendentale che costituisce l’essenza di ogni azione yogica.
Vairagya
Patanjali definisce questo secondo elemento come costitutivo del sentiero:
drsta-anusravika-visaya-vitrsnasya vasikara-samjna vairagyam (I,15) “il distacco è la coscienza del dominio dello yogin che è privo di sete per gli oggetti visti e rivelati”
Il distacco così come viene visto da Patanjali non è tanto uno specifico atto di non-attaccamento, quanto uno stato della mente; è la “coscienza del dominio” derivante dallo sforzo persistente di liberare la mente da ogni cosa contraria alla propria interiorizzazione.
Patanjali dice: tat-param purusa-khyater-guna-vaitrsnyam (I,16) “la forma superiore di questo distacco è la non sete per i guna che risulta dalla visione del Sé 4
E’ una definizione un po’ particolare, si dice cosa non è. E’ uno stato nel quale l’individuo si libera dei desideri degli oggetti visti e sentiti, degli oggetti percepiti con i sensi. E’ un distacco emotivo, possessivo da tutti gli oggetti passati presenti e futuri, anche dal corpo, non c’è niente su cui possiamo costruire un attaccamento. Un distacco dalla stessa pratica che facciamo, un distacco sostenuto dalla fiducia, è la fede che deve sostenere l’azione.
Tutto ciò che abbiamo, che possediamo, lo stesso corpo, in una visione cosmica è strumentale alla vita, quindi tutto perde del valore di cui li abbiamo caricati. Tutto ha un significato passeggero. Possiamo perdere la vista e non vediamo più certi oggetti, perdere la facoltà di sentire eppure possiamo continuare a vivere. Usare, vivere toccare ma non lasciarci coinvolgere dall’attaccamento all’oggetto, al sentire, al vedere. Questo non significa non utilizzare gli oggetti come strumenti, l’utilizzo degli oggetti è possibile ma è importante come noi consideriamo l’oggetto nella nostra interiorità.
Vairagya sono due parole Vai + ragya: letteralmente è non colorare di rosso le azioni, rosso è il colore della passione, dell’attaccamento. Non lasciare che i processi mentali, emotivi, colorino le azioni di rosso, esercitare la capacità di essere neutri, senza colore. Si possono fare le azioni quotidiane senza colorare di rosso attraverso i processi di esaltazione, le proiezioni mentali, ma fare qualunque cosa come se fosse la cosa più banale. Qualunque tipo di azione, qualunque incontro, se sei nella condizione di consapevolezza e coscienza globale, può non essere colorata di rosso. Se invece interiormente l’azione è colorata di rosso, tu sei nella coscienza parziale, cioè vedi quella azione come assoluta e quella cosa che stai vedendo per te acquista l’importanza più grande di qualunque cosa al mondo, lì hai perso la coscienza globale, la stai vedendo in modo parziale e la colori di rosso. E’ un lavoro da fare, non è una cosa acquisita.
Il vairagya è praticamente la parte più elevata del percorso yogico, è difficile raggiungere vairagya, ma non è difficile osservare, riconoscere quando nella nostra vita il vairagya non è presente, è quello che dobbiamo fare con la capacità di osservare, con la qualità dello suadyaya (studio di sé), è scoprire quanto siamo distaccati, lontani da vairagya.
“Esercitando il vairagya nelle azioni quotidiane ad un certo punto viene a mancare il rosso nella gamma dei colori.” 5
Quando abyasa e vairagya si manifestano noi non rispondiamo più alle leggi dei guna
Dal mondo dei sensi, Arjuna, vengono il caldo e il freddo, il piacere e il dolore, essi vengono e vanno. Sono passeggeri. Sollevati al di sopra di essi forte anima.
Colui che non si fa scalfire da queste cose e la cui anima è una sola, al di là del piacere e del dolore, è degno della vita eterna” (Baghavaghita I,14-15)
Satkara
Ma ancora un altro elemento Patanjali ritiene fondamentale, oltre il tempo e la determinazione, la fede – satkara (sutra 14). Fede in cosa? Fede che l’applicazione di abhyasa e vairagya porta a liberare la coscienza dalle vritti quindi alla purificazione. Ci vuole un atto di fede. Quindi non una pratica svogliata o automatica o un processo meccanico, ma una pratica accompagnata dalla dedizione
Kriya yoga
Per l’uomo la vita è movimento, la vita è azione, per cui Patanjali nel secondo capitolo, il Sadhana Pada ci introduce al kriya yoga, lo stato di yoga samatman, l’equilibrio attraverso l’azione. Come nel primo capitolo dice che lo yoga è citta vritti nirodha, nel secondo dice che lo yoga si realizza mediante l’azione tapah svadhyaya ishvara pranidhana kriya yoga (YS II,1) Lo yoga dell’azione si pratica secondo tre modalità inseparabili: la disciplina, la ricerca di sé e l’abbandono al divino.6
E questi tre elementi sono di nuovo sottolineati tra i cinque nyama insieme a schaucha (purezza) e santosa (contentezza) (YS II, 32)
Il testo di Patanjali parla di libertà, di vera libertà, una libertà che ha come unico obiettivo di liberare l’individuo da se stesso, dai condizionamenti della sua mente, una libertà che per svilupparsi ha bisogno di queste tre energie che dovrebbero coesistere in un cammino spirituale, altrimenti vi è crescita squilibrata in cui all’esaltazione di uno corrisponde l’atrofizzazione dell’altro.
Vimala Thakar dice che quando ci si muove nella più completa libertà allora questa è azione, quando invece siamo sospinti, trascinati, tirati dal passato morto, vale a dire dal contenuto della mente, non ci stiamo muovendo, non è nostra l’azione, diventiamo un agente passivo. Ma l’uomo che vive nella consapevolezza di sè non agisce passivamente, la sua responsabilità è quella di crescere come partecipante attivo nel processo di evoluzione cosmica. Egli è agente partecipante e non passivo e muto come la terra, gli oceani, il regno vegetale e animale .
In questo libro Patanjali ci fornisce le strategie per costruire una azione, entra dentro il kria yoga, lo yoga dell’azione.
Tapas
La parola tapas è molto interessante, deriva da una radice sanscrita tap ‘scaldare’ o ‘purificare’, possiamo dire purificazione attraverso il calore. Possiamo intenderlo sia come purificazione fisica, che come purificazione della percezione e della struttura psichica. Ciò avviene quando si è in grado di resistere alla corrente prepotente del passato, con esperienze, modelli di comportamento, riflessi condizionati, che ha una forza tremenda. Avviene agendo contrapponendosi all’ego, se cioè si rimane su un terreno privo di scelte, allora questa è tapas, austerità. Naturalmente sia il nostro organismo fisico, il sistema neurovegetativo e chimico, sia la nostra struttura psichica non amano questa fermezza, non gradiscono l’interruzione di questa corrente perché sono stati abituati alla corrente del passato. Quindi questa corrente opponendo resistenza, crea reazioni di paura, esprime risentimento, che si somatizzano in malattia e disturbi.
Quindi tapas non con un significato di mortificazione del corpo e della mente, come è stato interpretato da alcuni, ma un valore di fuoco interiore che va mantenuto tramite la disciplina, la pratica attenta e consapevole. Il movimento ripetuto che produce calore. La tensione che non va lasciata spegnere né diminuire. La ricerca, energia dinamica attiva, la pratica costante, il rigore nella ricerca di liberare la coscienza.
Quindi in tapas noi possiamo inserire asana e pranayama, tutte le pratiche fisiche, che devono avere la configurazione di un rituale, non tanto da considerare come una pratica fisiologica ma come una strategia che entra in una dimensione spirituale. La stessa sequenza eseguita in modo sistematico e rituale porta una incredibile ricchezza. In questo modo abbiamo la possibilità di avere dei parametri identici per comprendere l’evoluzione dei processi e possiamo collegare tapas a svadhyaya cioè lo studio di se stessi attraverso la pratica.
Svadhyaya
Svadhyaya è una parola composta: sva significa il sé, il vero autentico sé, non il sé costituito dall’ego, imparare a conoscere il vero sva, l’autentica essenza esistenziale dell’essere, la cui conoscenza avviene soltanto attraverso lo stato di costante osservazione; con l’osservazione, in cui ci fa essere lo stato di tapas, (purificazione) avviene l’apprendimento. Dunque tapas conduce a svadhyaya e, vedremo, svadhyaya conduce a pranidhana (abbandono al divino)
La conoscenza di sé che si raggiunge tramite l’introspezione, ma anche attraverso l’insegnamento altrui e la rivelazione delle sacre scritture: non c’è nessuna possibilità di ricerca se non accompagnata da una conoscenza, dalla consapevolezza di ciò che sono, di dove sono, di quali strumenti posso utilizzare. Quindi uno studio di sè ma non generico, uno studio specifico in funzione dell’obiettivo cittavrittinirodha. L’azione senza lo studio è un’azione vuota, lo studio ci permette di convogliare un’azione verso una direzione.
Quindi possiamo dire che quando avviene l’ interazione tra consapevolezza e conoscenza la comprensione, come dice Vimala, fiorisce.
Citando Patanjali: svadhyayat ista devata samprayagah Adhyaya (II-44), “Mediante lo studio di sé deriva l’unione con la divinità desiderata” imparare a conoscersi. Si tratta della capacità di conoscenza frutto della consapevolezza, conoscere la nostra natura più autentica, che sta oltre le maschere sociali o culturali dell’io e che possiamo scoprire attraverso la meditazione.
Isvara pranidhana
Come dicevo tapas conduce a svadhyaya e svadhyaya conduce a pranidhana, il terzo elemento introdotto da Patanjali: abbandono a Isvara, la consapevolezza del divino, o energia mutazionale, contenuto nel nostro essere.
Ishvara pranidhana
Ishvara: Dio personale o impersonale
Isvara era già stato trattato nel I libro, indicando le varie modalità per raggiungere il samadhi, Patanjali aveva introdotto la devozione ad Isvara e ne aveva già dato le caratteristiche .(YS I,23-24,25,26,27,28)
La comprensione del termine Ishvara nello Yoga non è facile. Ishvara viene da alcuni identificato con un dio personale, un dio che lo yogin può pregare, cui può chiedere una grazia o un aiuto. In vari commenti si possono trovare interpretazioni più religiose che a Ishvara attribuiscono il concetto di dio personale. Tali commenti sono altamente condizionati da una concettualità religiosa. Non c’è nulla di male nell’attribuire a Ishvara il significato di un dio personale, ma nello Yoga non è né indispensabile né necessario avere una proiezione e un credo su una divinità esterna e personale.
L’interpretazione di Ishvara -pranidhana come devozione al Signore è forse la più adatta, ma Ishvara non è legato a nessuna tradizione, è una sorta di minimo comune denominatore di tutte le religioni. È l’espressione di Dio, ma non è un dio, non ha forma: non c’è una statua che rappresenti Ishvara, non si prega per Ishvara. Forse Patañjali ha scelto questo termine per dirci che non si tratta del dio personale, cui indirizziamo le nostre preghiere.
La presenza di Ishvara differenzia lo yoga dal buddismo; nel buddhismo il contenuto di Ishvara non è presente. Nello yoga invece diventa un elemento di grande riferimento.
Lo yoga di Patanjali, e lo yoga in genere, è comunque una via per tutti. Chi è ateo vede in Ishvara un uomo speciale che si è realizzato, che ha raggiunto la perfezione, chi ha una visione più religiosa gli attribuisce il significato di un Dio.
Molti pensano che vi sia una connessione tra yoga e buddismo. Probabilmente ci sono molti punti in comune, ma questo non è un punto in comune, è una particolarità dello yoga.
Feuerstein avanza l’ipotesi che Ishvara sia essenzialmente un costrutto sperimentale apparso originariamente sulla base di un processo di interiorizzazione logica, piuttosto che puro raziocino teologico, seguendo l’ipotesi di R.Otto che afferma che sarebbe l’esperienza ineffabile, grandiosa e infinitamente potente che attrae e terrorizza allo stesso tempo, considerando questo il nucleo del sacro e dunque l’esperienza da cui ogni religione prende l’avvio7.
L’interpretazione che lascia un grande spazio di libertà è quella di attribuire a Ishvara -pranidhana il credo e l’abbandono all’entità che è in noi, a noi stessi in quanto purusa.
Secondo questa interpretazione, si può dire che Ishvara è l’individuo stesso, è l’aspetto più elevato e più libero di ognuno di noi.
Ishvara purusa speciale
Nel sutra I.24 si vede come la specificità di Ishvara sia quella di non essere toccato da afflizioni nè da tracce inconsce. Gli si attribuisce l’energia pura, non contaminata.
Vimala dice che la coscienza incontaminata dai klesa, (sofferenze) dal karma (azione generata dalla sofferenza) da vikalpa (il risultato dei movimenti generati dai klesa), è il purusa ed è chiamata Ishvara cioè il divino nell’uomo, quella misteriosa sorgente, quell’energia creativa e mutevole contenuta nel cosmo e nell’uomo.
Ishvara è come se fosse uno yogi realizzato, perché è un Dio, libero da qualsiasi sofferenza, da qualsiasi klesa, libero dal frutto delle azioni passate, dal karma, ma anche dalle tracce. Purusavishesa, è tradotto come purusa speciale. Come per dire “più puro non si può” . Il puro tra i puri. E questo è Ishvara, il Dio al quale Patanjali si riferisce. (YS I,24)
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Il sutra I.25 attribuisce a Ishvara il grado più alto del “seme dell’onniscienza”. Nel sutra I.26 Ishvara è il guru oltre il tempo. Si aggiunge in questo sutra l’elemento della trascendenza dal tempo: è il Maestro degli antichi, il Guru dei guru, il “sempre esistito”. Lo Yoga proviene da Ishvara ed è poi trasmesso da maestro a discepolo. Per comprendere Ishvara più adeguatamente Patañjali lo definisce pura luce; il praticante per connettersi con quest’energia pura deve collegarsi con la specifica vibrazione che la evoca: l’Aum (I.28). Qui, dice Vimala, entra il gioco l’energia della fede.
Gli Yoga sutra affrontano l’aspetto psicologico della fede e della riverenza indicando il simbolo: pranavah, la sacra sillaba OM, il simbolo di quella misteriosa energia creatrice:
“Se la razza umana desiderasse esprimere la sua riverenza e la sua fede a quel Dio, a quell’Isvara contenuto in essa, a quell’energia mutazionale cosmica come potrebbe fare?Usare il simbolo OM, – il suono-, la consapevolezza di ciò che il simbolo rappresenta lo porterà all’unione con quell’Isvara, quel Dio; con l’aiuto della ripetizione dell’OM, mormorando la sillaba, pienamente consapevole che si tratta solo di un simbolo creato dall’uomo per appagare l’aspirazione ad essere in unione con ‘Quello’. Poiché l’uomo non è in grado di sopportare il senso di vuoto, la nudità della psiche, sente la necessità di costruire un ponte che lo possa aiutare ad essere consapevole ad ogni istante, ad ogni respiro.” 8
Pranidhana: abbandono, fiducia, libertà
Patañjali afferma che chi pratica lo Yoga deve sentire in sé la fiducia in Ishvara, nel purusa, altrimenti il processo di tapas, svadhyaya, Ishvara -pranidhana non può mettersi in funzione.
Tale interpretazione di Ishvara -pranidhana può essere completata dando più importanza al termine pranidhana che a Ishvara, mentre alcuni studiosi attribuiscono un’estrema importanza a Ishvara come dio personale. Ma visto che di Ishvara non abbiamo esperienza e visto che si tratta di un concetto immaginario e ipotetico al quale possiamo attribuire il significato che vogliamo, non è interessante voler definire Ishvara, volergli dare una connotazione specifica, è sufficiente averne un’idea “aperta” e dare invece un significato profondo e concreto alla parola pranidhana, abbandono.
Secondo Vimala Thakar, una donna illuminata e libera, Ishvara pranidhana è l’abbandono della coscienza dall’ego per prostrarsi all’altare del vuoto interiore o citta vritti nirodha., l’abbandono alla consapevolezza di quella misteriosa sorgente della creazione che è chiamata Dio o divinità da tutte le religioni. Ishvara, secondo Vimala, non appartiene alle religioni, orientali o occidentali, è il dio nell’uomo. 9
Ma Vimala ne dà anche un’altra interpretazione: il prefisso pra indica unicità, un qualcosa di veramente speciale; nidhana significa ‘tesoro’, perciò: “la vostra essenza esistenziale, quell’intelligenza suprema e creativa è il vostro tesoro speciale”. I termini usati negli Yoga Sutra sono in codice, la comprensione e la percezione sono condensate in poche parole. Pertanto tapas svadhyaya risultano dalla realizzazione del nostro proprio tesoro contenuto in quell’energia creativa, in quell’intelligenza che dimora in noi10.
Quindi secondo Vimala, Ishvara pranidhana rappresenta una possibilità, una libera scelta per coloro che per qualche motivo non hanno la forza di sostenere il vuoto di citta vritti nirodha.
Patanjali affronta sia l’aspetto intellettuale che quello emotivo dell’uomo. L’aspetto intellettuale cittavrittinirodha, tadu drastuh svarupe vestahanam, l’aspetto emotivo Ishvara pranidhana, l’abbandono alla consapevolezza di quella misteriosa sorgente della creazione che è chiamata Dio o divinità in tutte le religioni.
Trovo che questa interpretazione è davvero interessante e offre all’uomo davvero uno spazio di libertà inusuale, quasi un desiderio di Patanjali di voler includere ogni aspetto della condizione umana dandone ad ognuna una pari dignità.
L’abbandono è legato alla fiducia. Chi pratica Yoga deve sapere che il risultato della pratica non è legato a un processo razionale, o almeno non è detto che chi compie un’azione nello Yoga raggiunga un risultato. Se l’azione è costruita dalla mente razionale otterrà soltanto un risultato corrispondente all’azione razionale. Se invece l’attività razionale che guida la nostra azione è accompagnata dall’abbandono, cioè dal mettersi nelle mani della natura, di un dio personale o impersonale o di un’entità alla quale non riusciamo a dare una concretezza, allora mettiamo la nostra razionalità e la nostra azione in secondo piano e diciamo che qualcosa è possibile soltanto grazie ad altre forze, ad altre energie che non dipendono da noi.
L’abbandono ci pone in una condizione di estrema libertà, di estrema serenità, di estrema fiducia, condizioni psicologiche estremamente importanti. Se l’abbandono è a un dio personale o impersonale o al purusa o ad altro, secondo me ha pochissima importanza. La cosa più importante è la fiducia. La fiducia è fondamentale per qualsiasi cosa si voglia fare, quindi Ishvara -pranidhana è l’elemento fondamentale attraverso il quale si raggiunge l’obiettivo. Si possono fare tanti esercizi, usare tante tecniche, ma se non c’è Ishvara -pranidhana non si riesce a raggiungere nessun obiettivo, anzi sperimenteremo blocco e rigidità.
Per liberarsi bisogna quindi abbandonarsi come in qualsiasi espressione della vita. Anche nel rapporto tra due persone se non c’è l’abbandono dell’uno nei confronti dell’altro non può nascere l’amore.
È impossibile per noi immaginare Ishvara e purusa perché l’essere umano con lo strumento che ha a disposizione, cioè la mente condizionata dalle vrtti, non li può immaginare. Se questa immagine è giunta fino a noi, sicuramente non è stata elaborata da persone che avevano una struttura mentale legata al condizionamento delle vrtti. Solo una struttura mentale libera dal condizionamento delle vrtti può incontrare e fare esperienza di Ishvara. Nel momento in cui la mente umana riesce a raggiungere questo obiettivo, Ishvara diventa una esperienza reale, non è più un concetto.
“Nella misura in cui non ci si attacca a nessun pensiero, a nessun punto di vista, a niente del tutto, e in cui non si desidera e non si teme nulla, e in cui non ci si rallegra e non ci si rattrista per niente, solo così può prodursi il vuoto dell’intelletto. Se mi preoccupo di ciò che accadrà domani, di ciò che dovrò decidere domani, non potrò ottenere questo vuoto. Devo avere una fede assoluta in questo mistero dell’aldilà in cui mi getto. Che io chiamo Cristo, Siva, Paramatman o altro. Totale accettazione che vi sia qualcuno che si occuperà di me completamente, oppure che mi ritroverò alla fine libero da tutte le mie presenti limitazioni” 11
Libertà dall’ego
Pranidhana significa fiducia in Dio, ma il suo significato più profondo è quello di eliminare l’ego. Quindi abbandono significa smettere di credere nel proprio ego, abbandonarsi ed entrare nella dimensione dell’umiltà.
Chi dice che lo yogin potenzia il proprio ego ha ragione perché se nelle sue azioni non controbilancia tapas e svadhyaya con Ishvara -pranidhana diventa un egocentrico che si allontana dalla ricerca interiore: la pratica rischia di essere al servizio delle sue vrtti, ma se c’è Ishvara -pranidhana il processo acquista serenità, fiducia, abbandono, libertà.
Con Ishvara Patañjali ha voluto utilizzare un termine che non portasse ad alcun tipo di proiezione. Ciò che mette l’individuo nella condizione di liberarsi dalle vrtti è infatti il pranidhana. L’individuo entra quindi in una dimensione straordinaria dell’attività mentale: incontra cioè l’entità del Sé, l’anima, l’atman, il purusa. Per lo Yoga è importante credere in qualcosa a cui abbandonarsi, dopo l’abbandono si rivelerà l’esperienza reale e si potrà entrare in rapporto con la propria Realtà.
Se ci si abbandona a Dio, in un certo senso si annienta il proprio dio personale. Dunque pranidhana abbinato a Ishvara è fondamentale perché è un binomio inscindibile, altrimenti si potrebbe cadere nell’errore di sentirsi dio. Ishvara è un’incognita, se non lo fosse non ci sarebbe bisogno di specificare la dimensione del pranidhana: l’unica possibilità che la mente umana ha di concepire Dio è nella dimensione dell’abbandono. Attraverso il processo di abbandono l’individuo può concepire, o addirittura percepire l’idea di Dio. L’abbandono è l’unica possibilità che l’essere umano ha di comprendere la relazione con Dio attraverso la struttura mentale a sua disposizione.
Gerard Bliz dice che l’ego si dissolve completamente quando ci abbandoniamo al Signore, a un Altro, nel punto in cui per paura e per sfiducia pretenderemmo di fare tutto da soli condannandoci alla disperazione e all’isolamento12.
Secondo Desikachar Ishvara pranidhana significa ‘deporre tutte le nostre azioni ai piedi di Dio’. poiché le nostre azioni, mosse da avidya, spesso risultano sbagliate. Per questo motivo la modestia è così importante. Basta sapere che abbiamo fatto del nostro meglio. Il resto lo lasciamo a un potere superiore. Nel contesto dei nyama, possiamo definire Ishvara pranidhana come l’offerta a Dio dei frutti delle nostre azioni come preghiera quotidiana.13
Libertà dai condizionamenti mentali
Il termine Ishvara -pranidhana sta quindi a indicare la capacità che lo yogin ha di superare i condizionamenti mentali. Se siamo in grado di andare oltre il nostro modo di vivere condizionato, raggiungiamo quel libero Spirito che è nell’individuo stesso. Tale Spirito non condizionato dal passato, dal presente e dal futuro, è l’Essere nella sua dimensione più pura, è Ishvara.
Un modo di realizzarsi può consistere nell’abbandono a quell’Essere che ognuno trova nel raccoglimento e che può dirigere le nostre azioni e la nostra vita in ogni istante.
Abbandonarsi a Ishvara significa abbandonarsi alla grande fiducia che ognuno di noi può coltivare nei confronti della parte più evoluta nell’uomo. È una dimensione di forza, di grande sostegno. Se si coltiva tale aspetto si fa crescere una enorme forza interiore, e nello stesso tempo si riesce a osservare la relatività dei processi dell’esistenza. I pensieri che ci attanagliano perché legati a paure, a condizionamenti inconsci ereditari, a influenze dell’ambiente che ci circonda, restringono la nostra coscienza. E ognuno di noi, quando è in balia di quelle proiezioni, esalta il proprio ego e cerca di proteggerlo prendendo delle precauzioni. In realtà questo comportamento non ci protegge affatto. Ciò da cui vogliamo proteggerci sono solo proiezioni inconsce che ci fanno percepire una data situazione come pericolosa. Ci proteggiamo da paure immaginarie con azioni che restringono la nostra libertà. Coltivare quelle paure restringe la nostra libertà.
Ma come nascono le paure capaci di restringere la nostra coscienza? Nascono dall’esperienza. Situazioni analoghe si sono evolute in un certo modo, quindi per analogia diciamo che, per preservare il nostro ego, non faremo quelle cose per evitare di incorrere nel medesimo problema vissuto in passato, o che un nostro conoscente ha vissuto. Ci auto-condizioniamo con tale elaborazione di dati del passato e limitiamo ad essi la nostra coscienza. Ci sembra che l’esperienza ci possa aiutare, ma in realtà ci condiziona e, nel tentativo di preservare l’ego, restringiamo la nostra vita credendo di proteggerla.
Ciò che lo Yoga propone, invece, è la fiducia. È una visione positiva della vita. Si tratta di sviluppare una grande fiducia smettendo di essere prevenuti. Ci avvicineremo sempre di più all’Essere che è in noi con la coscienza, con la consapevolezza, con una ricerca su noi stessi, con una pratica, con la meditazione. La vicinanza all’Essere che è in noi ci mette nella condizione di non avere più bisogno di ricorrere agli esempi del passato per poter evitare eventi o situazioni negative. Con la vicinanza all’Essere che è in noi attraverso la pratica della meditazione si acquista una dimensione di certezza e di fiducia, gli unici elementi con i quali lo yogin si orienta nella vita. Il passato non gli serve. Lo yogin, infatti, è profondamente calato nel presente, rifiuta le influenze trascorse, rifiuta i preconcetti legati ai fenomeni costruiti o subiti precedentemente, rifiuta la paura del futuro. Non si tratta di un rifiuto volontario, ma del frutto della grande fiducia che coltiva in sé. Lo yogin sa che, in qualunque momento, qualsiasi scelta farà sarà quella giusta, poiché egli è vicino al suo aspetto più divino. In questo consiste il senso dell’abbandono a Ishvara. Lo yogin viene illuminato dall’Essere che è in lui, acquista una dimensione interiore di completezza, non ha più bisogno di nessun sostegno, di nessuna regola, di nessuna influenza o esperienza del passato, perché la sua strada è illuminata dalla luce divina che è dentro di lui e lui si nutre di quella luce. Quella luce è Ishvara.
Nella meditazione avviene un riassorbimento della coscienza nella dimensione divina dell’Essere. L’abbandono a Ishvara è realmente una delle vie di realizzazione dello Yoga. Attraverso lo Yoga l’individuo riesce a scoprire questo aspetto, la luce divina che è in lui e si lascia travolgere, sviluppando la serena convinzione che una Coscienza superiore potrà illuminargli la strada, indicargli la direzione da prendere in qualsiasi evento, per quanto piccolo e quotidiano.
Libertà nell’azione
L’originalità nello yoga e l’intuizione che Patanjali ci fornisce è una strategia di educare il pensiero, per renderlo puro, allora solo allora l’azione che ne consegue sarà un’azione libera dai condizionamenti, non repressa, non violenta.
Nel trittico che Patanjali ci fornisce Ishvara pranidhana rappresenta l’elemento vairagya, mentre abhyasa è in tapas e suadhyaya.
La fiducia e l’abbandono, sono espressi nell’azione, nel non voler trattenere per sé, il lasciar scorrere, il non voler prendere per sé dei vantaggi, ma il lasciar andare abbandonandosi con fiducia ad Ishvara. Con Ishvara pranidhana Patanjali dà un contenuto, un sostegno figurato al termine vairagya. Non si tratta quindi di lasciare andare le cose come vanno, per cui le azioni possono anche essere fatte male assumendo un atteggiamento fatalista. Un’azione deve essere fatta bene, al meglio, non dobbiamo accontentarci di un’azione fatta male perché coltiviamo il vairagya. L’azione che andiamo a fare è un’offerta a Ishvara, per questo motivo la dovremo fare bene, senza conseguirne un vantaggio personale, quindi ci troviamo nella condizione di liberare un’azione ben costruita per offrire questa azione a Ishvara. Farla bene e offrirla ad Ishvara non è un atto spontaneo, dovrò imparare, quindi studio e applicazione sono due elementi indispensabili.
L’azione yogica
L’azione che andremo a svolgere nella pratica, asana o pranayama appunto, è pura in quanto ha valore di per sé, non si prefigge di arrivare a nessuno obiettivo, né di produrre nessun cambiamento. L’attitudine dello yogin è quello di porsi al servizio dell’asana con l’atteggiamento interiore di investigare, esplorare; un’azione ludica, gratuita perché non vuole acquisire né possedere alcun risultato, ma partecipa al suo manifestarsi con totale presenza.
Antonio Nuzzo definisce l’attitudine yogica dell’asana come coscienza della totalità. Niente è per noi ma è per meglio integrarci con la totalità dell’esistenza, al contrario nella visione abituale delle cose è la logica dell’ego che predomina, tutto è dominato da una continua acquisizione personale nell’illusione di poter riempire un vuoto mai colmabile. L’asana diventa dono, offerta di sé. L’azione yogica ci ricorda che siamo parte della totalità. La coscienza della totalità aprendoci alla completa disponibilità verso l’asana e verso la vita si profila come autentica educazione del cuore, scioglie i nodi di una affettività richiedente mai sazia d’amore e solidificata nel suo doloroso bisogno senza fine. Se siamo in grado di liberare la nostra affettività dalla morsa egoica che la imprigiona, il cuore dilaga, si espande, si scioglie, diviene spazio accogliente. La tenuta dell’asana secondo tempi lunghi e rituali permette di espandere la coscienza fino a percepire che il corpo così come lo conosciamo, svanisce lasciando il posto a uno spazio vibrante che continua ad espandersi nell’immobilità14.
E’ difficile praticare yoga, ma anche insegnarlo, perché lo yoga è un momento di libertà, non di condizionamento, quindi la tecnica è uno strumento, non è un condizionamento, e quando si vive la tecnica come un condizionamento, come qualcosa che assolutamente dobbiamo fare bene, questo è sbagliato; per vivere bene l’esperienza occorre avere fiducia, lasciare scorrere le cose, se non si riesce va bene lo stesso, l’importante è salvaguardare lo stato di consapevolezza, lo stato di coscienza libero, non agganciato ad un tipo di struttura mentale vecchia, condizionata, come può essere quella che ci pone nella condizione di dirci continuamente se ho fatto bene, ho fatto male, dovevo fare di più, dovevo ottenere quel tipo di risultato. Questo tipo di attività della mente deve essere superata ed è soprattutto nella fase di apprendimento che occorre costruire questa dimensione interiore diversa, occorre essere maturi nell’apprendimento. Dobbiamo imparare in una condizione di autonomia, di libertà, cioè non imparare nella condizione soffocata della nostra mente che ci fa sentire dei principianti “in attesa di”, non porci in questa condizione psicologica per nessun motivo perché questo è qualcosa che ci restringe e ci soffoca, questo non è assolutamente lo spirito con il quale si deve praticare yoga.
Il tipo di apprendimento nello yoga è diverso da quello che conosciamo nei contesti della nostra vita in cui veniamo costantemente stimolati all’autogiudizio, all’autocritica. Nello yoga bisogna essere capaci di apprendere in uno stato di completa libertà, sapendo che impariamo non grazie alle nostre capacità o a quelle dell’insegnante ma grazie a degli accadimenti che ad un certo punto aprono lo spazio dell’apprendimento.
Uno spazio che non è razionale, uno spazio libero dove accade ciò che non è mai accaduto prima di allora, e può accadere improvvisamente anche senza essere allenati.
Noi impariamo una tecnica ma dobbiamo essere certi che possiamo realizzarci anche senza quella tecnica, non è perché coltiviamo una tecnica in un certo modo che ci realizziamo, perché possiamo realizzarci anche senza fare yoga, e questa deve essere una nostra certezza. Dobbiamo quindi avvicinarci allo yoga con la certezza che ciò che dovrà accadere fuoriesce dalle cose che impariamo, o che facciamo, perché queste cose sono solo per orientarci verso una migliore capacità di armonizzazione interiore; il primo elemento focale è l’armonizzazione ed è questo a cui dobbiamo tendere immediatamente sin dal primo momento in cui ci apprestiamo ad imparare una nuova tecnica.
Questo tema è praticamente l’oggetto del secondo libro, il Sādhana Pāda.
Quando noi facciamo una pratica di yoga, facciamo delle azioni costruite ma queste azioni hanno bisogno di un supporto: Ishvara pranidhana è un supporto ottimale per esprimere un concetto figurato, Ishvara, un essere superiore al quale affidare la propria vita, il proprio impegno. Questo nella pratica yoga è estremamente importante perché anche la tecnica, come le azioni strutturate e complesse, producono degli attaccamenti, ma gli attaccamenti possono essere liberati attraverso la formulazione di un pensiero. Il passaggio che lo yoga offre è un passaggio assolutamente armonioso e dolce, capace di dare serenità e tranquillità perché ci permette di convogliare le nostre energie verso Ishvara pranidhana. Nel percorso della pratica entra a pieno titolo il ruolo del divino come simbolo a cui offriamo le azioni della nostra vita. La comprensione di questo è derivata dal fatto che noi veniamo da una incognita che deve in qualche modo essere raffigurata da un ideale, da una proiezione mentale che possa formare un supporto. Ishvara è la proiezione mentale che serve da supporto alla nostra ricerca.
La motivazione per la quale bisogna mettere in atto tapas, svadhyaya e Ishvara pranidhana è eliminare la causa della sofferenza e la sofferenza (klesa).
La motivazione con la quale si pratica yoga deve quindi essere assolutamente orientata verso una dimensione di libertà, una dimensione nella quale guardiamo in faccia alla sofferenza a cui siamo assoggettati.15
Quindi l’orientamento sia in asana che in pranayama deve essere quello di coltivare un’azione corretta, conoscere la tecnica alla perfezione, stabilirsi con un’ottima impostazione, allontanarsi completamente dall’idea del risultato, perché il risultato non deve interessare il praticante.
La ricerca spirituale si sviluppa nel cercare le strategie, le modalità per imparare come accogliere, non è una ricerca nel senso attivo di ricerca del risultato. Il risultato non ci interessa
In questo senso l’abbandono trova la sua massima espressione.
Pratica
Detto questo è ovvio che non c’è una pratica che predispone più al percorso di abbandono perché l’abbandono a Ishvara è lo spirito che anima ogni tipo di tecnica che sia asana, pranayama o karma yoga, ma è possibile guidare se stessi e l’allievo a vivere il senso di abbandono accompagnando i processi sensoriali ad osservare lo stato di rilassamento e di tensione muscolare che ogni asana porta con sé, fino ad arrivare ad uno stato di rilassamento del corpo fisico, dei processi mentali ed emotivi, che possono facilitare l’abbandono e poter entrare nello stato di sthira sukham, nell’asana stabile e confortevole (YS II,46)
L’atmosfera interiore che possiamo creare e facilitare nell’allievo è legata alla modalità del pensiero, al pramana giusto, un contenuto mentale che ci aiuta ad entrare e ci aiuta a vedere un contenuto diverso da come lo abbiamo vissuto fino a quel momento.
Può essere interessante iniziare una pratica con shavasana per calarsi in una dimensione di passività totale e questo stato di passività viene indotto da una disponibilità propria al rilassamento.
Il senso che occorre dare al rilassamento è diverso da quello che abitualmente facciamo nell’immaginare che il rilassamento è solo un semplice esercizio di decontrazione muscolare. Dietro c’è un significato immenso, c’è il significato del pensiero yogico, c’è il darsana dello yoga che si esprime attraverso lo stato di rilassamento.
Il rilassamento è l’espressione di una profonda partecipazione alla vita, è un momento di maturazione su quella che è la nostra condizione. Il movimento e l’energia della vita è qualcosa di grandioso, e questa energia travolge l’umanità intera, travolge i pianeti, le stelle le galassie e noi siamo in questo turbine, noi giriamo insieme alla terra, insieme alla terra facciamo diverse evoluzioni e insieme alla galassia facciamo diverse evoluzioni nello spazio. Pensiamo al movimento che ci influenza perennemente, in modo costante nella nostra vita. Il rilassamento è un momento di grande maturazione che ci consente di lasciare andare i freni, di abbandonare il nostro ego, di abbandonare l’io cosciente che ha la presunzione sempre di poter orientare e dirigersi, dirigersi anche contro i processi energetici e vitali della vita.
Quindi la disponibilità al rilassamento è andare insieme alla corrente vitale, a questo movimento che delle volte va nella nostra direzione, altre volte ci porta nella direzione opposta. Ognuno di noi a volte è spinto in una direzione che contrasta il nostro desiderio. Il senso del rilassamento è un senso che ci pone nella condizione di accogliere la direzione della vita, di andare nella sua stessa direzione, è la disponibilità ad accogliere quel movimento, farlo proprio e andare in quella direzione, lasciarcisi permeare. In questo senso il significato simbolico del rilassamento è qualcosa che ha una portata oltre l’esercizio della contrazione e decontrazione muscolare.
Pensiamo alla capacità di rilassarci e abbandonarci nei momenti più difficili della vita, quando ci sono dei fenomeni che abitualmente ci mettono in uno stato di tensione, cercare di vivere in quel particolare momento uno stato di passività. Certe volte il rilassamento nella propria vita ci permette di affrontare meglio delle situazioni a volte estreme, è possibile in quelle circostanze potersi rilassare, ammorbidire le rigidità e in questo modo superare meglio le difficoltà del momento. Quindi il rilassamento del corpo presuppone una disponibilità profonda al rilassamento totale.
Il senso simbolico di shavasana è un senso che porta con sé una trasformazione della propria visione di sé nel mondo. Rilassarsi significa abbandonarsi alla forza primordiale che ancora produce i suoi effetti, di andare nella stessa sua stessa direzione, verso la prima pulsione vitale, la prima vibrazione e sentirsi la continuazione di quella prima vibrazione.
Tutto questo è condensato nell’atto di rilassarsi. Quindi l’esperienza dello yoga è l’esperienza di colui che vive il movimento verso la morte per conoscere la morte in vita: la morte di tante cose dentro di noi e il rilassamento è la capacità di far morire tante cose in noi, è l’anticamera della meditazione e del samadhi. Infatti Shavasana è conosciuta anche come mritasana,la posizione del cadavere. Abbandonarsi alla vita, lasciare che la vita a e la sua energia possa penetrarci totalmente e lasciarci penetrare e trasportare senza paura con un senso di grande disponibilità e con una consapevolezza che ci consente sempre più di entrare in relazione con Dio.
Questo profondo rilassamento fisico e mentale che shavasana porta con sé ci permette di proseguire la pratica anche di asana più complesse conservando l’atmosfera interiore di rilassamento anche nei passaggi da un’asana all’altra. Dobbiamo cercare di mantenere la stessa morbidezza di cuore, la stessa morbidezza di intento, sia quando siamo nella posizione statica sia quando passiamo da una posizione statica ad un’altra, curando anche il movimento. In questo modo l’estensione di tutta la pratica mantiene un elemento stabile e la stabilità di questa dimensione è la dimensione di sthira sukham, in questo modo salvaguardiamo lo stato di coscienza, che diventa l’elemento fulcro attorno al quale ruotano posizioni, rilassamenti, equilibri, varie abilità fisiche.
Dopo essere entrati in questa dimensione profonda di rilassamento attraverso shavasana, può essere interessante una sequenza dove ci siano asana in flessione anteriore, forma fisica del raccoglimento che predispone ad un atteggiamento di umiltà e di devozione.
Una sequenza ben armonizzata da proporre dopo shavasana può essere:
Isvhara pranidhana: profonda preghiera
Questo cammino di ricerca all’interno dello yoga e di me stessa mi ha permesso di avviare di muovermi con delicatezza e stupore all’interno del mio corpo, della mia mente, del mio inconscio, delle mie emozioni, imparando a non far niente per modificarle e scoprendo che solo questo già produceva un cambiamento. E lo stupore più grande è stato accorgermi di sentirmi bene dentro questa cambiamento .
Un cambiamento di forma, di schemi, di punti di percezione, di amplificazione dei sensi, di priorità, di profondo desiderio di ordine interno e esterno. Niente esteriormente della mia vita è cambiato ma davvero, come diceva Nuzzo, la mia vita ha subito una trasformazione.
La pratica yogica mi fa sperimentare un corpo che può diventare permeabile al flusso spontaneo del respiro e dell’energia, di essere trasportata da questo flusso misterioso, e di poter entrare nel flusso misterioso della vita, di impregnarmi del mistero della vita e di lasciarmi portare nel totale abbandono, lasciandomi guidare, cogliere e trasportare, dalla totale flessibilità, dal totale rilassamento. Come una mamma amorevole trasporta il proprio bambino, così un’energia amorevole mi trasporta nelle Sue braccia e mi accompagna nella Vita.
Signore non si inorgoglisce il mio cuore
E non si leva con superbia il mio sguardo:
non vado in cerca di cose grandi,
superiori alle mie forze
Io sono tranquillo e sereno
Come bimbo svezzato in braccio a sua madre
Come un bimbo svezzato è l’anima mia.
(Salmo 131)
Questo è uno dei salmi della tradizione ebraico-cristiana a me più cari.
E’ un canto di fiducia spontanea e assoluta, quasi istintiva, simile appunto all’aggrapparsi affettuoso e sereno di un bambino alla persona che costituisce la sua sicurezza e la sua pace, cioè sua madre. Non si tratta di un bambino ancora allattato, il termine ebraico definisce il bambino “svezzato”, e l’immagine allora è quella molto orientale del bimbo che la madre porta sul dorso, si ha quindi un’intimità più cosciente.
Questa immagine è quella che più mi permette di sperimentare l’abbandono, l’affidamento a Dio. La via dell’abbandono scioglie le rigidità, la disperazione, le durezze, spezza l’orgoglio ferito (“non si inorgoglisce il mio cuore, non si leva con superbia il mio sguardo”) rasserena l’anima rendendola tranquilla, in pace, in attesa. Il non cercare niente, il non desiderare niente, se non lo stare avvolto da braccia materne.
L’abbandono reale è tanto più integrale quanto più sperimento un’impotenza radicale, una vera e propria resa senza condizioni, un abbandono a qualcosa di molto più grande di me, che chiamo appunto Dio.
Nella pratica posso educarmi a rispondere con morbidezza a questo desiderio divino di accogliermi e portarmi, morbidezza così tanto sconosciuta alla mia mente. Posso sperimentare il lasciarmi sollevare e portare dolcemente da questa energia.
Isvhara Pranidhana è questo per me
Questo percorso è appena iniziato e la difficoltà dell’inizio di discernere tra lo ‘sforzo e la resa’ , tra il resistere e l’abbandonarsi, è sempre presente. Ma questa consapevolezza ha avviato il processo.
Pranidhana nella pratica mi sta insegnando a mantenere lo sguardo fisso su ciò che è immutabile dentro di me e ogni momento della pratica diventa un incontro con la presenza divina, spazio di profonda preghiera dove pregare è rendersi disponibili a Dio.
Così scrivevo l’8 agosto 2008 dopo una meditazione:
“spontaneamente ho praticato yoga con un atteggiamento di preghiera. Senza conoscerne l’essenza, l’invito all’ascolto e a rivolgere lo sguardo all’interno di me mi faceva assumere spontaneamente un atteggiamento di gratitudine infinita verso Dio per la pace che quella pratica mi portava. Tanto da considerare sacro il luogo, il tempo della pratica, il mio corpo con il quale entravo in relazione. In realtà non avevo contenuti di cui riempire questo sentire spontaneo, né strumenti di conoscenza. Lo studio di Patanjali mi ha aperto ad un nuovo, risvegliando in me un interesse latente, dando i contenuti e consolidando nella pratica e nella vita il profondo senso di preghiera, di abbandono e di gratitudine a Dio.
Solo di fronte a te Dio sono realmente come sono. Nuda, spogliata di ogni velo, posso essere come realmente sono. Non ho ruoli, non devo contenere, controllare, avere, mostrare,… così semplicemente semplice, semplicemente accolta da Te come sono. Cosa sei Tu per me? Sei l‘esperienza di essere come sono”
“…purchè tu viva dando ascolto al ritmo che ti porti dentro, a ciò che sale dal fondo di te stessa. L’unica sicurezza su come tu ti debba comportare ti può venire dalle sorgenti che zampillano nel profondo di te stessa. Ti ringrazio perché talvolta posso essere così colma di vastità, quella vastità che non è poi nient’altro che il mio essere ricolma di te” Etty Hillesum
L’esperienza dell’Assoluto non ha a che fare con alcuna dottrina o con alcun credo religioso, se non nella misura in cui prepara l’anima a questo.
Il percorso spirituale trova il suo compimento nella realizzazione delle presenza di Dio, qualunque sia il cammino che conduce ad esso.
Contributi
Da Gioia
La primissima cosa che lo yoga mi ha insegnato, era proprio la prima lezione, è lasciar andare, concretamente, cominciando dal corpo. Per troppo tempo l’avevo capito solo nella testa, tenendomi sempre qualche piccola cosa per me. Questo è diventato nel tempo più consistente, come quando si va sott’acqua e si toccano livelli di immersione sempre più profondi: si lascia un livello di realtà per trovare qualcos’altro, tutto quello che c’era prima, sparisce. Ho capito che abbandonare è il requisito per apprendere, qualcosa di nuovo. La ricerca dello yoga inizia da qui, da quando si è disposti a perdere, a lasciare, a deporre, con cura ai piedi dell’esistenza, tutto quello che c’è.
Pra …ni… dhana. Non è solo pra, ‘dinanzi’, c’è anche quel ni, che ne rafforza l’azione, è dare senza trattenere qualcosa per sé, dare con attenzione, con grazia, totalmente. E’ un salto nel vuoto. E questo ne fa un rito.
La pratica è un po’ come due amanti che si dicono addio, in un rapporto diventato troppo angusto, troppo noto, in cui ci siamo solo noi. Si lascia qualcosa, forse per sempre, ma nella ambascia di quel sentimento non c’è soltanto lo struggimento della perdita (un po’ a volte anche quello): siamo chiamati, c’è lo slancio appassionato a volgerci verso qualcosa, non si sa bene cosa. Nell’intensità dell’addio c’è un misto di smarrimento e gioia. Lasciamo ciò che ci è familiare. E a poco a poco quella gioia diventa più chiara, diventa tutto.
E’ il sollievo di dimenticarsi di sé …. E solo allora si trova l’altro, esiste solo l’altro, esiste solo il mondo, la meraviglia dell’Esistenza. Noi ci siamo persi deponendo quello che sapevamo di essere ai suoi piedi. Ishvarapranidhana è dimenticare tutto quello che siamo nell’abbraccio fidente della pratica. E’ perdersi tra braccia sconosciute, ma infinitamente accoglienti e silenziose. Il silenzio sconosciuto di livelli di immersione sempre più profondi, ma che ricchezza si può scoprire e che felicità! Il nostro corpo è diventato immenso, comprende tutto, dà significato a tutto, impara da tutto, niente è fuori. E’ Ishvara, sei tu.
In quel silenzio rimane il battito del nostro cuore che pulsa dentro il grembo di shashankasana, mentre il corpo è abbandonato in un inchino verso la terra, un inchino alla vita, una celebrazione della vita. Ishvarapranidhana è perdersi in questo abbraccio.
Da Stefania
“Resta nel tempo senza farti trascinare, senza stagnare continua a fluire”.
(Baba Avadhuta Bhagvan Ramji)
Ringraziamenti
Il mio grazie a Dio per il dono immenso della vita, per aver chinato su di me il Suo sguardo, per avermi reso partecipe della Sua opera creatrice, per il dono della Grazia, per il dono di Gesù e di tutti i maestri dell’umanità della spiritualità cristiana e indiana.
Il mio ringraziamento a Padre Andrea Snoller che mi ha introdotto, attraverso la pratica della consapevolezza, della presenza mentale, del respiro, del silenzio, inserendo questa pratica nel contesto della cristianità, nella tradizione dei padri del deserto e dell’esicasmo. Lui mi ha permesso di accendere la scintilla dell’interesse e della ricerca interiore, di avviare un percorso all’interno di me.
Ringrazio Antonia Tronti, insegnate di yoga, che con libertà da anni è ispirata all’incontro tra spiritualità indiana e cristiana, con la quale ho condiviso la possibilità di vivere la pratica yogica come preghiera. A lei ho espresso 5 anni fa il mio desiderio di approfondire il percorso yogico, a lei devo l’incontro con Antonio Nuzzo verso il quale mi ha indirizzato
Ad Antonio rivolgo il mio ringraziamento più grande. Maestro di yoga, maestro di vita. Con Antonio ho capito la differenza tra maestro e insegnante. Antonio è un maestro, e ora dopo quattro anni di conoscenza posso dire il mio maestro, colui che ha saputo risvegliare il mio maestro interiore. Riconosco in lui una capacità continua di ricerca, di mutamento, una chiarezza di visione e di trasmissione, davvero dono di pochi, una armonia dei gesti e del muoversi, segno di una profonda armonia interiore, di una libertà che traspare da ogni parola.
Attraverso lo yoga e lo studio di Patanjali, Antonio con passione e delicatezza mi ha reso possibile l’osservazione dei miei processi mentali, emotivi, inconsci
A lui sono profondamente grata e per sempre rimarrà impressa la sua mitezza, l’umiltà di cuore, la tenerezza e la profonda semplicità e chiarezza nel trasmettere, la libertà interiore, la chiarezza di chi vede chiaro dentro di sè ed è illuminato dalla luce divina.
La struttura residenziale del corso ha permesso di vivere la formazione in modo unico, di far si che tutti i momenti dei seminari diventassero una vera pratica yogica. L’incontro con ‘belle’ persone che hanno condiviso con me questo percorso ha rappresentato un dono ulteriore che Dio mi ha concesso e che Antonio ha reso possibile.
Ringrazio uno per uno i compagni di questo corso con i quali ho condiviso questo pezzetto di cammino, per l’amicizia, le parole, i silenzi, la spontaneità, i sorrisi, gli abbracci, le difficoltà, che hanno reso questa esperienza speciale, perché la condivisione di un percorso spirituale rende possibile una intimità profonda anche se non espressa.
Infine grazie:
A mio padre e mia madre che mi hanno trasmesso una devozione semplice, essenziale, un amore costante e sicuro, un rifugio amorevole e gratuito.
A Matteo, mio figlio, la manifestazione più bella della vita che Dio mi ha permesso di conoscere, per avermi continuamente richiesto dalla sua nascita, a sua e mia insaputa, di praticare yoga, permettendomi di trasformarmi e maturare con lui, di osservarmi e osservarlo nella sua crescita, richiedendomi di cambiare continuamente forma mentale cercando, con fatica, stabilità interiore.
A Fabio che per anni è stato compagno della mia crescita spirituale e affettiva.
1 Vimala Thakar ‘Lo yoga oltre la meditazione’ Ubaldini editore 2 Georg Feuerstein ‘Filosofia Yoga’ Ed. Marsilio p.125 3 Ibid. pag.127 4 Georg Feuerstein ‘Filosofia Yoga’ Ed. Marsilio pag.128 5 Antonio Nuzzo Faleria, novembre 2009 6 Vimala Thakar ‘Lo yoga oltre la meditazione’ Ubaldini Editore pag.72 7 Georg Feuerstein ‘Filosofia Yoga’ Ed. Marsilio pag. 25-26 8 Vimala Thakar ‘Lo yoga oltre la meditazione’ Ubaldini Editore pag. 4 9 Vimala Thakar ‘Lo yoga oltre la meditazione’ Ubaldini Editore pag. 43 10 Ibid pag. 75-76 11 H.Le Saux Diario spirituale Ed, Mondatori, pag 169 12 Gerard.Bliz ‘Il filo dello yoga’ 13 T.K.V. Desikachar ‘Il cuore dello yoga’ Ed Ubaldini pag. 129 14 Gioia Lussana ‘la Totalità’ 20.07.09 15 Antonio Nuzzo Faleria seminario 10.11.07
Bibliografia
Thakar Vimala, Lo yoga oltre la meditazione, Ubaldini
Thakar Vimala, Il mistero del silenzio, Ubaldini
Feuerstein Georg, Filosofia yoga, Marsilio
Blitz Gerard, Il filo dello yoga, i.d.e.a. studio
Le Saux Henry, Diario spirituale, Mondatori.
Desikachar T.K.V., Il cuore dello yoga. Ubaldini
Palaci M., Angelici R., Gli yoga sutra di Patanjali, Associazione Italiana Raja Yoga
Hillesum Etty, Diario, 1941-1943, Adelphi